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Traversata degli Ambin

Sara Canali intervista Alberto Bolognesi.

Ambin è un nome che non è stato scelto per caso. Ma arriva da una certezza salda come la roccia. E infatti, il massiccio che porta questo nome si trova in Val di Susa, proprio dove ha avuto inizio l’avventura, la genesi del tutto. Si tratta di un territorio aspro, isolato e poco battuto; percorrere i 40 km lineari che lo attraversano significa concedersi un’avventura senza tempo, dove dimenticare il mondo circostante e riconnettersi con la fatica, con la natura, con se stessi.

Così la intende Alberto Bolognesi che, dopo aver girato le montagne di tutto il mondo, è proprio dietro casa che ha trovato il suo posto, dove concedersi ogni anno il tempo di risalire per poi tracciare nuove linee in discesa in un percorso che definire bello sarebbe riduttivo. Perché la bellezza è soggettiva, mentre la fatica la sentono tutti. E il massiccio degli Ambin di fatica ne richiede parecchia e non solo fisica.

Entra in gioco la testa, lei per prima, per poter gestire 3/4 giorni lontani dal mondo che vanno al di là della performance alpinistica sportiva e si può contare solamente sulle proprie gambe e forze.

Quella a cavallo tra Italia e Francia è la via che i contrabbandieri percorrevano in inverno, ma restando più in basso. Per trovare un itinerario simile poi bisogna tornare agli anni ’70 quando il territorio ospitava il Trofeo Penne Mozze, una delle più autorevoli e imponenti gare scialpinistiche delle Alpi. “Il percorso della gara prevedeva la traversata degli Ambin ma senza salire sulle punte e senza fare le cime. Erano quasi circa 80 km su tracciato esposto e si alternava di anno in anno con il Trofeo Mezzalama. Poi un incidente mortale che ha coinvolto Walter Blais di Chiomonte, un addetto all’assistenza e alla sicurezza lungo il tracciato cui è stato intitolato il bivacco omonimo, pone fine all’organizzazione del Trofeo Penne Mozze”.

Passano anni senza che questo itinerario venga preso in considerazione, perdendo anche la memoria di cosa fosse quel tracciato visto che non è mai più stato inserito nelle attività scialpinistiche. Poi nel 2007 Alberto, insieme alla guida alpina Pier Mattiel, decide di ritracciare il percorso del Trofeo Penne Mozze con l’idea di far ripartire la competizione. Ma il territorio non è ancora pronto per lasciarsi alle spalle quel lutto. Così i due partono da soli, senza nessuna gara tra atleti, ma come sfida per loro stessi. “Abbiamo fatto la nostra traversata riuscendo a concluderla in due giorni”, racconta Alberto. “Eravamo molto allenati, viaggiavamo leggeri e abbiamo portato con noi il minimo indispensabile. Quella dei due giorni è stata una esasperazione ma ci è servita per trovare il giusto parametro. Abbiamo visto che è possibile portare a compimento la traversata in 3/4 giorni portandosi tutto a spalla: dalle vettovaglie a ciò che serve per dormire”.

Da gara con gli altri è diventata una sfida interiore, con se stessi. Dal 2007 a oggi Alberto quel percorso lo ha fatto più volte e ogni traversata è come se fosse la prima. “A differenza di altri tracciati che mostrano analogie con quello del Massiccio degli Ambin, per esempio la traversata da Chamonix a Zermatt, non ho mai incontrato nessuno lungo il tragitto. Quello che mi piace delle mie montagne è che sono rimaste ancora un luogo selvaggio, riflessivo, senza carovane di persone alla ricerca della performance sportiva a tutti i costi. Il fatto è che non essendoci ristori lungo la strada devi contare solo sulle tue forze. È davvero molto dura, sei in alto, il telefono non prende, sei isolato e non puoi scappare. Se ti capita il brutto tempo devi accoglierlo e aspettare che si assesti”.

Lassù in alto, su quel gruppo montano isolato, le giornate sono fatte per pensare, faticare, riflettere. La domanda, quindi, sorge spontanea. Perché? Qual è la bellezza della fatica? “La bellezza della fatica sta nella sfida che è solo con te stesso. Ritorni ‘bocia’ (bambino), giochi con la neve, sei in contatto con la natura più vera, togli i pensieri della quotidianità e arrivi a conquistare un qualcosa di particolare che cambia ogni volta a seconda di chi c’è con te”.

Alberto accompagna lungo questo tragitto solo chi ha già sciato con lui e di cui conosce le caratteristiche sia tecniche che di resistenza mentale. La Grande Traversata degli Ambin infatti necessita di un totale 20 ore di camminata se fatta nei tre giorni, con 3000 metri di dislivello in salita, 4000 metri in discesa e si percorre una distanza di 40 km. La difficoltà è un OS ottimo sciatore (è necessaria una perfetta tecnica sciistica: itinerario piuttosto complesso con passaggi tecnici fino a 40° e con tratti a 45°) per giungere infine alla piana di Saint Nicolas a 1700 metri.

La partenza tendenzialmente la si programma tra febbraio e marzo, il periodo migliore grazie all’alta pressione e con le sere non troppo fredde visto che nei bivacchi non ci sono riscaldamenti”, continua Alberto. “Sei quasi sempre sopra i 3000 metri e sono circa 60 km con sci ai piedi, ma anche ramponi e imbrago perché alcune situazioni di neve richiedono la corda per assicurare. E soprattutto si porta tutto a spalla, ognuno deve essere autosufficiente ed è questo che rende questa traversata così affascinante e unica.

La traversata

Partenza da Bardonecchia e arrivo al Colle del Moncenisio lungo un percorso impegnativo che richiede una buona capacità di adattamento in quanto si dorme due notti in bivacco e una buona preparazione tecnica. Da Bardonecchia e attraverso il colle Galambra si raggiunge la cima della punta Sommeiller 3332 mt, si prosegue lungo la cresta aerea e sfuggente fino a scavalcare la vetta del Monte Ambin 3266 mt, dopodiché con una spettacolare discesa ci si abbassa sul colle d’Ambin dove si trova il comodo bivacco W. Blais. Successivamente il percorso risale, vertiginosamente, sulla sommità del Monte Niblè mt 3365, poi con una lunga e panoramica discesa attraverso il Colle dell’Agnello si arriva al Bivacco L. Vaccarone 2743 mt da cui un passaggio impegnativo permette il raggiungimento del Col Clapier 2477 mt.

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Sara Canali
Le montagne non si muovono, ma se le racconti, arrivano ovunque in un sussurro. Questo credo sia il potere delle storie ed è proprio questa convinzione che mi ha portata a dedicare la mia vita alle parole scritte. Nata in provincia, cresciuta tra Italia e Francia, sono approdata in città, a Milano, dove vivo tutt'ora e da qui lavoro come giornalista freelance collaborando con alcune riviste nazionali generaliste (come Vanity Fair, GQ, Marie Claire) e altre più verticali (come Outdoor Magazine e Race Ski Magazine). Appassionata di teatro, buon cibo e sport, fatico a stare seduta e mi sento in prigione se non posso stare all'aria aperta almeno un'ora al giorno.

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